mercoledì 18 marzo 2009

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venerdì 20 marzo 2009
Cral Eni - viale Ippolito Nievo 38
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21.15 La recensione del Marmugi
21.30 L'ospite inatteso di Tom McCarthy
23.30 Fichi alla siriana
L'ospite inatteso (The Visitor), Usa 2007, 104'

Piccolo avamposto dell'era Obama e delle aspettative che alimenta, è L' ospite inatteso dell'americano Tom McCarthy. In altre tonalità rinnova Terminal di Spielberg con Tom Hanks: raccontare sullo sfondo delle fondate paure conseguenti all'11 settembre la semplice esperienza umana di un incontro tra diversi. Con tutte le sfumature di fiducia, paura, buonsenso, curiosità. Ciò che appartiene alle esperienze reali, alle ipotesi verosimili. All'orizzonte del sempre più possibile incrociare la propria vita con chi arriva da altri luoghi con bagagli e fardelli non solo disperati, o non sempre per le stesse ragioni. Le occasioni si stanno moltiplicando dai banchi di scuola all'inserimento di giovani lavoratori nel Nordest. Secondo una gamma che prevede di tutto. Anche che l'immigrato non abbia un'identità standard. Che, per esempio, sia un artista o un ingegnere, una persona in qualcosa migliore di noi.
C'è un americano di mezza età solitario, metodico, spento (l'attore è Richard Jenkins). Vedovo, docente universitario, pendolare. Ama la musica, beve buon vino, si intuisce che nutre sentimenti progressisti ma anche che non gli interessa più niente. Una sera trova l'appartamento occupato. Più che indignato è sorpreso e spaventato. Ma subito dopo aver cacciato gli abusivi si affaccia e li richiama. Tarek e Zainab, un siriano e una senegalese. Clandestini. Si arrangiano con dignità: lui suona il tamburo da dio, con un gruppo di amici nella metro. Sono perbene, sono grati a Walter al quale il ragazzo dona con slancio la sua amicizia. È tanto denso il legame che si crea, senza dirsi troppo, che anche Walter comincia ad andare con Tarek nella subway, da apprendista percussionista. Il giovane passa all'anziano quello che sa, e l'anziano ritrova una spinta vitale. Ma la metropolitana sarà maledetta perché proprio lì sotto Tarek viene fermato, messo dentro, rimpatriato. Walter si fa in quattro e durante una delle visite in carcere perde le staffe al rifiuto di dargli informazioni sul trasferimento dell'amico, probabilmente ha una reazione passionale per la prima volta da un'eternità. E rivendica la genuina natura dell'America che accoglie, dove tutti sono "diversi" e tutti sono americani se si comportano onestamente con questa terra che sentono la loro terra, l'America che non respinge chi abbia voglia di rimboccarsi le maniche. Come Tarek, che non deve vergognarsi e avere paura per essere arabo. Un delicato apologo. Senza retorica, senza proclami che le persone normali non si possono permettere e che, travolte dagli eventi, neanche penserebbero di poter fare: la sfuriata di Walter è dettata dall'istinto di cui per primo si spaventa. Ma contiene tutto. L'idea semplice che lo straniero non è per forza un nemico, l'immigrato non è necessariamente un terrorista, il clandestino non è sempre un pericolo ma può essere un ospite, magari diventare un amico e perfino uno che ti insegna qualcosa.
Paolo D'Agostini, La Repubblica, 5 dicembre 2008
La fortuna di Richard Jenkins, fantastico, finissimo attore, professore universitario quasi pensionato, è di trovare nel suo appartamento a New York una coppia di immigrati, lui un siriano e lei senegalese. Invece di cacciarli, fa amicizia e coltiva perfino l'arte della percussione, al tamburo: quando il ragazzo viene arrestato, s'adopererà per confortarlo e ci sarà anche un tentativo sentimentale, complice Il fantasma dell'opera, con la mamma venuta dalla Siria. È la morale di aggiungi un posto a tavola aggiornata alle velenose leggi di Bush dopo l'11 settembre: in questo senso McCarthy tocca con mano la delusione americana e ci insegna con sottili tocchi etnici, da un Lévi Strauss di stanza a New York, l'arte della tolleranza, che può passare anche attraverso il rullo di un tamburo. Sono gli incastri affettivi a sedurre e Hiam Abbas, nel ruolo della madre, è una presenza quasi magica. Voto 8.
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, 12 dicembre 2008
Esistono film-Davide e film-Golia. Questi ultimi sono le superproduzioni, i blockbusters che spendono in pubblicità più di quanto sono costati e ammiccano da tutti i manifesti, giornali e tv. I Davide sono i film piccoli, fatti con pochi soldi, che per forza propria si assicurano un durevole spazio nella memoria senza clamori a pagamento. Rientrano in tale categoria i classici del neorealismo italiano, le scoperte della Nouvelle Vague, gli esordi di Ferreri e Olmi, le sortite di Cassavetes e altri americani indipendenti. Tutte imprese di stazza orgogliosamente inferiore, il cui segno incide più di molte roboanti chiamate cadute presto nell'oblio.
A tale schiera appartiene certo L'ospite inatteso: tenuto a battesimo dal Sundance e vincitore a Deauville sempre in virtù della qualità. Saldamente poggiato sulle robuste spalle di Richard Jenkins, attore con splendidi precedenti teatrali che il cinema si accontenta di usare come caratterista, il film scritto e diretto da Tom McCarthy presenta un uomo di mezza età insegnante di economia in un'università provinciale, disamorato della vita e con il bicchiere a portata di mano. Vani risultano i suoi tentativi di imparare a suonare il pianoforte in omaggio alla moglie scomparsa, che era una brava concertista. A spezzare la triste routine di Walter Vale interviene un viaggio di lavoro a New York, dove ha mantenuto, senza più utilizzarlo, un appartamento al Village che scopre occupato da una coppia di squatters: il siriano Tarek (Haaz Sleiman) con la compagna senegalese Zainab (Danai Gurira). Smaltito il primo scontro i due accettano di sloggiare, ma vedendoli spaesati Walter si rassegna a tenerseli per un po'. E subito Tarek incuriosisce il professore con i suoi esercizi di percussione sullo jambè, che gli fa rimediare qualche soldo come ambulante, e si accinge a insegnarglielo. Pian piano Walter si concede tante passeggiate con il nuovo amico, mangia il kebab e partecipa suonando a certi collettivi che gli fanno recuperare un'inattesa pulsione di vita. Sostituendo l'impossibile ritorno del pianoforte, il tamburo risuona come una metafora della sopravvivenza al lutto. Il dramma scoppia quando Tarek viene arrestato perché senza documenti e rinchiuso fra altri 300 nel centro di detenzione di Queens. Toccato con mano il frutto avvelenato delle leggi emanate dopo l'11 settembre, Walter ospita Mouna (Hiam Abbas, splendida attrice anche lei), la madre dello sventurato accorsa dalla Siria, si unisce al gruppo etnico degli stambureggiatori e perfino sostituisce Zainab quando deve assentarsi dalla bancarella dove vende ninnoli artigianali. Nello sforzo di rasserenare un po' le due donne in ambasce, l'amico americano le asseconda nell'ingenuo svago di andare su e giù gratis sul traghetto di Ellis Island, all'ombra di quella Statua della Libertà simbolo di valori ben lontani dalla cieca xenofobia dell'amministrazione Bush. A sorpresa, infine, Walter realizza il sogno di Mouna di vedere a Broadway Il fantasma dell'opera, e nel corso della serata si capisce che fra i due potrebbe nascere qualcosa di più. Ma il film è troppo serio per scivolare su un finale consolatorio... Alla sincerità che McCarthy sa unire a un talento di osservatore della realtà e direttore di attori, bisogna rispondere adeguatamente. Siamo di fronte, rara avis, a un bel film che fa del bene. Ti insegna ad accettare l'"ospite inatteso" anche quando è profondamente diverso; e chiamiamolo pure "abbronzato", secondo la nota espressione del Cavaliere. Un tipico film-Davide che pur maneggiando la fionda del messaggio politico non trascura di impartire un augurio esistenziale: possa il ritmo vitale dello jambè rimettere la tua anima in movimento facendo balenare due soldi di speranza.
Tullio Kezich, Il Corriere della Sera, 5 dicembre 2008

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